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Archivio Sonoro

Mimmo Ferraro

Mimmo Ferraro

Venerdì, 08 Giugno 2018 12:51

000 Marialba Russo, Galatina 1972 (77)

La raccolta include una serie di canti eseguiti senza nessun accompagnamento strumentale. Sono documentati canti d’amore, stornelli, canti polivocali, ironici, religiosi, canzoni patriottiche, canti di lavoro, canzoni narrative e la lamentazione di una donna vittima di tarantismo. Molti brani sono commentati direttamente dagli informatori che ne spiegano occasioni e funzioni d’uso.

(77)

I documenti presenti in questa raccolta raccolgono una serie di informazioni e fonti storiche eterogenee tra loro, tutte circoscritte all’interno del territorio di San Nicandro Garganico. L’ampio quadro delle registrazioni si compone di canti d’amore e serenate, testi ironici, canti di lavoro, canzoni narrative, ma anche interviste con lunghe testimonianze storiche e storie di vita narrate da anziani del luogo. Inoltre, la raccolta contiene alcuni canti di ambito religioso eseguiti dagli adepti della singolare comunità ebraica locale fondata da Donato Manduzio.

(125-A, 126 108764-5)

Rilevazioni realizzate a Montesano nel 1965 da collocare nell’ambito delle ricerche condotte da Annabella Rossi sulle feste e le forme di possessione del sud Italia. I documenti del Fondo Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari si legano e integrano con quelli presenti nell’omonima raccolta contenuta nel Fondo Leydi (le registrazioni sono inoltre contestuali alle riprese di Luigi Di Gianni per Il male di San Donato). La festa del santo patrono di Montesano del Salento è documentata con diverse riprese audio del paesaggio sonoro:  frammenti di canti religiosi polivocali in successione, commenti di fedeli, l’omelia del parroco, l’intervento del sindaco, i passaggi della banda, le lamentazioni di alcune donne possedute, le recite dei rosari. I documenti restituiscono l’atmosfera della festa animata di viva partecipazione, un appuntamento che richiamava un gran numero di fedeli e soprattutto di devote che chiedevano al santo di essere liberate dal male (i casi più frequenti erano imputabili a epilessia e crisi di nervi) mettendo in atto in chiesa, come accadeva per i tarantati a San Paolo di Galatina, rituali di possessione e crisi che potevano essere placati nella richiesta ciclica della grazia. Ad arricchire le rilevazioni di questa raccolta un’interessante intervista realizzata fuori dal contesto della festa, nella quale una tarantata, colpita anche dal male di San Donato, descrive con impressioni e comparazioni l’esperienza vissuta nelle due differenti forme di possessione.

(7-9, 108687-9)

Documenti sonori registrati durante la festa di San Michele e il pellegrinaggio a Monte Sant’Angelo il 29 settembre 1970. La grotta dove è apparso l’Arcangelo è uno dei maggiori e più noti luoghi di culto e pellegrinaggio del sud Italia; attivo fin da epoca pagana come fonte sacra di guarigione e luogo di contatto con i numi, il sito ha visto nel corso del medioevo passare fedeli, imperatori e papi, per inginocchiarsi al cospetto dell’Arcangelo nel percorso obbligato della Via Sacra Longobardorum per le crociate in Terra Santa. Diverse le leggende e gli avvenimenti storici che hanno arricchito di fascino il sito e il culto micaelico (una di queste narra ad esempio di come San Francesco d’Assisi si sia fermato all’entrata del santuario non sentendosi degno di entrare nella grotta). Ad aumentare l’incanto del luogo è la collocazione su una linea retta che parte da Mont Saint-Michel in Normandia, passa per la Sacra di San Michele in val di Susa, e attraverso il Gargano, a intervalli regolari di circa mille chilometri, arriva a Gerusalemme.
L’indagine di Annabella Rossi si colloca in un particolare momento storico che segnava un passaggio di testimone, in termini di partecipazione, attrazione e visibilità, della grotta dell’Arcangelo al cospetto del crescente fenomeno mistico di Padre Pio nella vicina San Giovanni Rotondo. Tale passaggio, tutt’altro che eclissare l’interesse religioso e storico culturale per il luogo, ha bensì riacceso di riflesso il fermento devozionale e turistico per il sito. Il caso storico religioso è esaminato da Ernesto De Martino in Furore simbolo valore attraverso un’analisi storico economica nel lungo periodo fornendo collegamenti tra diverse fasi della storia religiosa del Gargano (anche noto con l’appellativo di Montagna sacra). De Martino sottolinea l’esistenza di una sorta di forza "rigeneratrice" capace di rinnovare nei secoli, grazie alla comparsa di figure carismatiche e taumaturgiche (Podalirio, Calcante, San Michele, Donato Manduzio, Padre Pio), l’attrazione di fedeli e pellegrini sul promontorio pugliese.
Le testimonianze raccolte documentano interviste a pellegrini e fedeli, registrazioni del paesaggio sonoro e di canti polivocali religiosi, narrazioni di esperienze mistiche, miracoli, guarigioni, azioni e gesti rituali, inoltre, vengono ricordate le visite di ossessi e indemoniati mandati qui direttamente da Padre Pio per liberarsi dal male.

(39-A, 108715)

Venerdì, 08 Giugno 2018 12:30

000 A.Rossi Bari 1970

Rilevazioni realizzate nel 1970 a Bari, presso la basilica di San Nicola, da Annabella Rossi (coadiuvata da un secondo ricercatore), che documentano alcuni aspetti della festa che annualmente, il 9 maggio, celebra l’anniversario della traslazione dei resti del santo dalla città di Myra (nel territorio dell’attuale Turchia) a Bari, avvenuta nell’anno 1089. Da secoli (i primi documenti che l’attestano risalgono al 1620) la festa costituisce un’importante occasione di pellegrinaggio: gruppi di devoti (di prevalente estrazione rurale e popolare) provenienti, oltre che dai paesi della Puglia, dalla Campania, dalla Basilicata, dall’Abruzzo e dal Molise, giungono a Bari per sciogliere un voto o per chiedere una grazia al santo. Centrale nel culto di San Nicola è l’acqua miracolosa che si ritiene emani direttamente dai resti del santo: conosciuta come manna di San Nicola, per i fedeli conserva poteri taumaturgici (in particolare di tipo curativo) generalmente attribuiti al santo. Per molti pellegrini è quindi estremamente importante fornirsi di piccole quantità di manna (imbottigliata e venduta ai fedeli) da portare a casa al fine da assicurarsi una duratura protezione dai mali. Registrati probabilmente all’esterno della basilica, i documenti comprendono una serie eterogenea di interventi al microfono (preghiere, canti, dichiarazioni di devozione e discorsi di ringraziamento rivolti al santo per una grazia ricevuta) tenuti da alcuni pellegrini, generalmente in rappresentanza dei gruppi di appartenenza (tracce 02, 04, 05 e 06), per la quasi totalità provenienti dall’area campana (Casapesenna, Giugliano, Casaluce, Teverola, Villa di Briano, località in cui il culto di San Nicola è tuttora molto presente). Sono inoltre presenti nella raccolta un’intervista ad alcuni pellegrini  (traccia 03), un frammento di un canto eterofonico per San Nicola (traccia 01) e un frammento dell’esecuzione di una marcia da parte di una fanfara (traccia 07).      

Venerdì, 08 Giugno 2018 12:23

000 Maria Convertino

Maria Convertino nasce nel 1931 da padre pescivendolo e mamma contadina. I genitori erano proprietari di terreni della zona di Fasano (Br) dove già da piccolissima Maria apprende il repertorio vocale durante il lavoro nei campi, mentre raccoglieva il grano, le fave e le olive. L'apprendimento avveniva attraverso l'imitazione delle altre cantrici più esperte, ma ricorda un episodio che la fece definitivamente riconoscere dalla comunità come una bravissima cantrice: il fratello, insieme ad altri suoi compagni, si preparava per suonare in occasione della questua del Sabato Santo, ma un cantore all'ultimo minuto si defilò. Trovandosi in difficoltà, il fratello di Maria chiese alla sorella sedicenne di vestirsi da maschio e partire con lui, nonostante la contrarietà del padre, che non riteneva "educato" che una ragazza portasse matinate e serente in giro per i paesi. Ma il suo canto, racconta Maria, fu così apprezzato che decise di iniziare a cantare anche fuori dal contesto lavorativo. Anche Maria, come tanti altri cantori, ha imparato il proprio repertorio vocale, non solo attraverso l'imitazione durante il lavoro nei campi, ma anche attraverso l'apprendimento dei canti incisi nei vecchi 78 e 45 giri.
Smette di cantare nel 1962, quando si trasferisce in Svizzera per lavorare in una fabbrica di rasoi elettrici, e ritorna in Italia nel 1983, dove lavora in un hotel e in cucina presso un ospedale, abbandonando definitivamente la pratica dei canti durante il lavoro nei campi. Tuttavia, grazie all'amico Antonio Loparco, “Tunnicchio”, suonatore di organetto, inizia a cantare in occasione del carnevale, del presepe vivente, di feste paesane e in eventi organizzati per recuperare il canto e la danza tradizionale.

Venerdì, 08 Giugno 2018 12:19

000 L'organetto nella Bassa Murgia

Variamente denominato (rionetta, argonetta, jottë bassë, du bottë, armonica, rionettë, rigonetta, ecc.), l’organetto entra nella cultura popolare pugliese, e quindi anche nella Bassa Murgia, dalla metà dell’800, diffondendosi tra pastori e contadini, più legati alle forme della trasmissione orale a differenza degli artigiani sonatori di chitarra, mandolino e violino, che mescolavano  repertori scritti a quelli di tradizione orale.
Privilegiato per la robustezza, l’intensità sonora, la facilità di esecuzione e l’accordatura fissa, l’organetto presentava però non pochi problemi, per la limitazione armonico-melodica e l’uso esclusivo del sistema a temperamento equabile, che sembravano impedire la trasposizione o l’accompagnamento del repertorio vocale, spesso non tonale, così come la trasposizione del repertorio di strumenti con una più ampia gamma armonico-melodica come violino, mandolino e chitarra. Di fatto seppe adattarsi a tutti i repertori esistenti (matinate, serenate, stornelli, canti di questua, canti di passione, canti epico-lirici e narrativi), ad eccezione soltanto di alcuni canti polivocali, e a crearne altri propri ed esclusivi, in cui si sfruttava in particolare la vivacità ritmica data dalla bitonicità, imponendosi come strumento principe per le musiche da danza.
Dopo gli anni '60, con la progressiva trasformazione dei contadini in operai nelle fabbriche di Taranto, Brindisi e Bari, l’organetto comincia ad accompagnare anche il repertorio dei canti di lavoro, ormai defunzionalizzati, acquisendo nuove funzionalità ludiche, estetiche e di memoria storica.
Il tipo più usato nella Bassa Murgia è quello ad otto bassi, che nell'area della Valle d'Itria dagli anni '80 viene gradualmente sostituito dal due bassi ad opera di Martino Albanese, un operaio che lavorava presso il negozio musicale “Consoli” di Locorotondo. Martino riuscì a persuadere i suonatori locali a sostituire il loro vecchio otto bassi, elogiando la leggerezza e la maggiore potenza sonora del due bassi. Questa vicenda di fatto ha modificato significativamente il repertorio organettistico locale, eliminando le caratterizzanti modulazioni armoniche e le tonalità minori proprie del repertorio della Valle d'Itria e della Bassa Murgia.
Riguardo la musica per danza, l'organetto accompagnava la più antica tarantella o pizzica pizzica, usate come momento ludico e come musica legata al fenomeno del tarantismo, come le più moderne quadriglie, polche, polche rosse (locale polca figurata), mazurke, schottish, tanghi, foxtrot, raspa. Con l'organetto si accompagnava anche la scherma, una lenta quadriglia cadenzata da accenti musicali a guidare i duellanti.

Venerdì, 08 Giugno 2018 12:16

000 Il repertorio alla barbiere

Il barbiere, fino a pochi decenni fa, forniva un numero consistente di prestazioni: dalla conoscenza della disciplina medica sino a quella musicale. Si andava dal barbiere non solo per farsi radere la barba e aggiustare i baffi, ma anche per curare i denti o attaccare le mignatte (sanguisughe), dove il salasso biologico diveniva lo strumento migliore per curare diverse malattie del sangue e del fegato. 
Il salone del barbiere era quasi un piccolo conservatorio della musica artigiana: la bottega diventava luogo di formazione e di scambio musicale, dove si mescolavano repertori scritti a quelli di tradizione orale, dando vita a una nuova figura di dilettante musicale dotato di rudimenti di armonia e capace di leggere la musica. Spesso si eseguivano i "ballabili" di moda appresi tramite manoscritti, riviste specialistiche per il dilettantismo musicale e sui libretti, che giravano appunto tra i barbieri, dove ci si aggiornava delle mode del momento, e più tardi, nel '900, anche ad orecchio attraverso l'ascolto dei 78 giri. 
Gli strumenti tipici che interpretavano questo repertorio erano il mandolino, il violino, la chitarra francese (simile alla nostra chitarra classica) e la chitarra battente: se i primi due strumenti avevano la funzione di suonare le melodie, con la chitarra francese si eseguiva la tecnica del "basso passeggiato", simile al basso continuo, e la chitarra battente fungeva da accompagnamento ritmico. 
Il repertorio alla "barbiere" comprendeva le più antiche tarantelle, pizziche pizziche e musiche legate alla terapia del tarantismo, come le più moderne quadriglie e serenate, sino alle musiche ottocentesche come mazurche, polche, schottish, valzer e a quelle di inizio '900 come tanghi, fox-trot, rumba, raspa, salsa, beghine, shimmy e le fantasie sull'opera lirica.

Venerdì, 08 Giugno 2018 12:05

000 Il canto polivocale in Valle d'Itria

I canti polivocali costituiscono la maggior parte del repertorio dei contadini, soprattutto nella forma di canti di lavoro e religiosi. I luoghi sacri e lavorativi, infatti, erano condivisi, quasi sempre, da piccoli gruppi di persone che interagivano nella preghiera o nel lavoro.
Normalmente l'importanza del ruolo canoro era strettamente legata a quello lavorativo, infatti i cantori più esperti erano quelli che avevano anche un ruolo di guida durante il lavoro. 
Rispetto alle interviste che ho potuto documentare sino ad oggi, i cantori spiegano che il canto a più voci in Valle d'Itria era composto da tre parti: nella prima l'esecutrice, cherë ca pigghjë ‘nnendë, cantava la melodia fondamentale e spesso iniziava da sola la prima parte del verso; la seconda, cherë ca menë sopë o a soprenë, cantava a intervallo di una terza sopra rispetto alla prima voce e la terza di accompagnamento, che raddoppiava e imitava la prima voce oppure la seconda. Questa terza parte era cantata da cantori alle prime armi o da quelli meno portati, avendo così la possibilità di imitare e seguire con più facilità le altre due parti principali.
L'aspetto melodico dei canti era legato a delle “arie” su cui si adattavano diversi testi. Tra le più conosciute e cantate in Valle d'Itria cito l'aria alla trainjierë e l'aria a tommë
I testi dei canti affrontavano diversi temi: dal canto di protesta a quello scherzoso e giocoso, come poteva essere tra lavoratori, dal corteggiamento tra uomini e donne che lavoravano in terreni vicini, ai canti narrativi spesso attorno ad avvenimenti realmente accaduti, sino ai canti d'amore e sociali, in cui si affrontava a volte anche il tema del matrimonio combinato e dell'amore in tutte le sue sfaccettature, ed emergeva la condizione marginale della donna. A volte questi canti avevano una morale finale, come nel caso del Cundë Marchë (brano 01) dove, alla fine del racconto di un matrimonio combinato finito male, la morale suggerisce: vu donnë cï l’avita lë filë bella, ‘na lli scetë accassannë senza vulündeja chessë ‘na jè pezzë arrëpëzzeja quannë ‘na la vuleita ‘vù la scuseïta(voi donne che avete le figlie belle, non le fate maritare contro la loro volontà perchè non sono come una stoffa rammendata che quando non la volete la scucite).
Per altri esempi di canto polivocale, si vedano nella Raccolta Maria Convertino, i brani da 25 a 32.

Venerdì, 08 Giugno 2018 11:44

000 Famiglia Zizzi

La famiglia Zizzi di Cisternino (Br) è da diverse generazioni che, attraverso il canto, tramanda la cultura di tradizione orale locale. Le registrazioni che posseggo partono dal nonno Vitantonio, nato nel 1907 in Contrada San Salvatore nell'agro di Ostuni (Br). Mi racconta il figlio Pietro che Vitantonio da ragazzino, dopo la perdita prematura del padre, inizia a cantare e suonare l'organetto. Impara l'arte del trainiere e, da Bari a Lecce passando per Brindisi e la zona tarantina, impara i canti che ascolta durante il suo lento passaggio. 
Da Bari prendeva le cipolle, da Lecce le sementi ed il foraggio, da Brindisi prendeva le fave, dalle Pianelle nella zona di Martina Franca la legna, da San Donaci, Squinzano, Cellino San Marco l'uva e da Ostuni e Fasano le olive; si può immaginare quindi come il trainiere riuscisse, in questo suo lungo viaggiare, ad apprendere nel tempo una notevole varietà di stili di canto che a sua volta tramandava. 
Nel 1939, dall'unione di Vitantonio con Maria Lucia Puppi, nasce il figlio Pietro, che impara già da piccolissimo a cantare su impulso del padre, con il quale, insieme al Fratello Donato, a sua volta cantore e suonatore di fisarmonica, andava spesso a lavorare: ricorda con piacere che i loro lunghi viaggi erano sempre accompagnati dal canto. Pietro mi spiega che alcuni canti sono anche inventati dalla famiglia stessa e raccontano storie successe nel loro quotidiano. 
Pietro sposa Angela, anche lei cantrice che però apprende i canti lavorando esclusivamente nei campi, e dalla loro unione nasce nel 1965 Vito, che ha quindi la fortuna di imparare il canto grazie al nonno, al padre, alla madre e allo zio e, successivamente, diventa anche lui un abile suonatore di organetto e fisarmonica. Nel 1990 Vito diventa padre di Pietro (prende il nome del nonno, come tradizione vuole) che oggi suona il tamburello accompagnando il padre nella loro trattoria di Cisternino per la gente che vi ristora.

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