Questo sito utilizza cookies, anche di terze parti. Per proseguire devi accettare la nostra policy cliccando su “Sì, accetto”.

Archivio Sonoro

Ti trovi qui:Archivio Sonoro | Archivio Sonoro Campania | Fondo Teche Rai-Campania | Dal RadioCorriereTV - Campania

Dal RadioCorriereTV - Campania (5)

Articoli, schede e rimandi a commento delle trasmissioni televisive della settimana

Gli articoli di approfondimento, le schede e i rimandi che, dal 1925 al 1995 e poi dal 1999 fino al 2008, hanno accompagnato la programmazione televisiva della Rai, settimana dopo settimana, con firme anche di grande prestigio e temi ed argomenti del tutto impensabili oggi su un periodico di grandissima diffusione.

  • Genere Audio

  • Genere Testo
  • Descrizione

    Luciano Michetti Ricci presenta la tappa napoletana dell'inchiesta Anche senza parole, un'indagine sui mutamenti della società italiana visti e analizzati attraverso i modi di comunicazione filmati in viaggio lungo il Paese.
    "Avevamo deciso di fermarci a Na­poli per la parte della nostra ri­cerca televisiva riguardante i ge­sti del lavoro e del tempo libero e la scelta ci parve quasi ovvia, cioè d'obbligo. Non sono i napo­letani i più ricchi di comunicatività, i più fantasiosi anche nel ge­stire? E poi Napoli, città che si va industrializzando e che nel contempo conserva drammaticamente i problemi di un secolare sottosviluppo economico, è rappresentativa di contraddizioni e squilibri che sono ancora di tutto il paese sul piano economico-sociale e di riflesso, sul piano del costume e dei comportamenti individuali e sociali: ardite avanzate nel futuro tecnologico e, poco distanti, arretratezze sconvolgenti.
    Per tornare più direttamente ai gesti, argomento della trasmissione Anchesenza parole, voglio ricordare che una ricerca contemporanea alla nostra, condotta dall'etnologo Diego Carpitella, confrontando immagini del gesticolare napoletano di oggi con gesti analoghi desunti da stampe del '600, ha portato a concludere che il linguaggio delle mani, dei volti, del corpo è rimasto sostan­zialmente lo stesso da secoli nella città partenopea.
    E difatti non ci è stato difficile ritrovare quella intensa comunica­zione - verbale e non verbale - che ha reso famosa Napoli (an­che se di solito si è preferito co­glierne i lati più superficiali, più 'pittoreschi'). Siamo partiti da uno dei rioni popolari, siamo en­trati nei 'bassi', nel cuore della vecchia Napoli, quei rioni poveri che successivamente sarebbero stati duramente colpiti dal colera. Sono le zone poco o nulla toccate dall'industrializzazione, dove per sopravvivere si è costretti, oggi co­me ieri, ad arrangiarsi con mille e nessun mestiere. La vita del vicolo appare ancora quella di sempre, con un'intensa comunicazione, un chiamarsi da una finestra all'al­tra, vociare, gesticolare, ognuno che sa tutto degli altri ed è pron­to a dare una mano al vicino più bisognoso di lui: 'Qui è tutta una grande famiglia', ci ripetevano. Ogni gesto è un confermare agli altri la propria disponibilità, la propria intesa.
    Ma già un grosso cambiamento lo notammo fra le bancarelle di frutta, verdura e tutto il resto dalle parti di Porta Capuana. Due giovani pescivendoli si sgo­lavano davanti al loro banco, erano allegri, vitalissimi nel decantare la loro guizzante merce, a noi sembrò che cantasse­ro. Con le braccia e tutto il corpo rappresen­tavano, da fermi, un coloritissimo balletto. Ma si facevano notare soprattutto perché erano gli unici in tutto il mercato a fare quella rap­presentazione. Anche a Napoli - ci dissero - sempre di più succede che si va nei negozi o alle bancarelle di piazza, si chiede quello che si vuole, si paga e via. Tutto con poche parole, senza vera comunicazione fra venditori e clienti. Come nelle grosse città di tutto il mondo. E sempre più rari sono i venditori che si sbracciano per chia­mare i clienti.
    In una piazza trovammo un ciabattino che la­vorava al sole, sul marciapiede. Era lì da qua­rant'anni. Conosceva tutti e tutti conoscevano lui. Venne un cliente, abbastanza ben vestito, con cappello e cravatta, che aveva da riparare una scarpa. Se la tolse lì, in mezzo alla strada, e mentre aspettava chiacchierava col ciabattino. 'Per me il lavoro è un divertimento', ci disse il calzolaio. 'La giornata, parlando con la gen­te, passa in un momento'. Ecco uno che riu­sciva ancora a esprimere se stesso attraverso quegli umili gesti, quel battere dalla mattina alla sera su vecchie suole. Sapeva rendere personale anche quel modesto lavoro, forse per­ché avvertiva che proprio per mezzo di quello si manteneva in un rapporto umano continuo con gli altri.
    Andammo poi a parlare con gli operai che lavorano nei grossi stabilimenti delle zone in­dustriali. Nelle fabbriche e nelle catene di mon­taggio, si sa, non c'è spazio per gesti che non siano quelli funzionali, atti a produrre il più possibile nel minor tempo. Gesti meccanici che escludono qualsiasi creatività personale. Ebbene, era questo che a noi interessava: che cosa succede nell'incontro fra strutture indu­striali e una popolazione così profondamente espansiva anche a livello di linguaggi mimici, gestuali? Gli operai che intervistammo analizza­rono con grande acutezza la loro condizione. Erario ben coscienti di quale trauma sia porta­trice l'industrializzazione in una città dove comunicare con gli altri è, dicevano, una ne­cessità vitale. Gente, i napoletani, che, anche in lotta con la miseria e l'emarginazione, sen­tono come un grosso patrimonio la propria inventività, il potersi esprimere e realizzare con gli altri. Non è che sentiamo nostalgia o rim­pianto per un mondo passato, dicevano quegli operai usciti dai vicoli malsani per andare a vivere nei casermoni di periferie simili a quelle di mille altre città. Il mondo cambia e dobbia­mo adeguarci - dicevano - ma è davvero un progresso quello che mentre ci dà un lavoro più sicuro nello stesso tempo ci impoverisce della nostra ricchezza umana?
    [...] Lo stesso grave impo­verimento nella comunicazione da persona a persona lo trovammo nel tempo libero prodot­to dalla società industriale. Allo stadio, duran­te una partita di calcio, fermammo sulla pelli­cola atteggiamenti e gesti di spettatori che sem­bravano ancora ricchi di espressività e di in­venzione. Ma a un'analisi più attenta erano com­portamenti di migliaia di persone tutte isolate l'una dall'altra, in un rapporto ipnotico con il pallone e con i giocatori. E i ragazzi che trovam­mo a un flipper stavano ripetendo esattamen­te i gesti impersonali, meccanici degli addetti a una catena di montaggio. Senza comunicazione con i vicini. Ecco in che modo, da un'angolazione parziale come può essere l'osservare ciò che abbiamo sott'occhio ogni giorno, gesti apparentemente insignificanti, si possono riscoprire i grossi problemi delle lacerazioni prodotte da una so­cietà che si trasforma senza tener abbastanza in conto, oltre a costi, profitti e produttività, le ragioni, i diritti umani. E tuttavia la cosa più consolante è stata, nella nostra ricerca, la quasi disperata esigenza, specie da parte dei più gio­vani, di un recupero della comunicazione, a li­vello sociale, politico, individuale, in mille forme.

    Data: ottobre 1973

  • Luogo Napoli
  • Provincia Napoli
  • Regione Campania
  • Autore Luciano Michetti Ricci

  • Genere Testo
  • Descrizione

    Per la rubrica Dove rinasce il folk Salvatore Bianco si interroga sulla presenza di un folk autentico nelle comunità rurali e nel capoluogo campano, fotografando la scena dei gruppi di riproposta, il panorama delle feste tradizionali, con una guida d'eccezione: Roberto De Simone.
    "Pochi mesi fa a Sant'Anastasia, un chilometro da Pomigliano d'Arco, il paese dell'Alfasud. All'improvviso uno scoppio. Non si è ancora spento il boato che tutti gli abitanti si rendono conto della tremenda realtà: la Flobert, una fabbrica di armi-giocattolo, è saltala in aria. Morti e feriti. Fra quanti accorrono per primi sul luogo del disastro ci sono anche dei giovani che alla fine del '74 si sono riuniti con l'intento di riproporre il folklore della zona. Giovani, lavoratori e studenti, noti ormai con il nome di Gruppo operaio 'E Zezi. Dalla scioccante esperienza di Sant'Anastasia nasce un canto di rabbia: 'A Flobertla vicenda della fabbrica, una ballata dolorosa, chi la ascolta ha l’impressione di sentire i racconti dei vecchi cantastorie".
    L'autore riflette sul folk come veicolo di interpretazione di un fatto moderno per il tramite di antichi mezzi di espressione, come motivazione socio-politica legata alle rivendicazioni della sinistra operaista, ma "quello di Pomigliano d'Arco non è l'unico revival. Nel filone di questa riproposta folkloristica a vari livelli va inserita Concetta Barra, cantatrice di Procida, considerata 'l'espressione stilisticamente più autentica' e più aderente a certi modelli che sono propri del popolo, non solo della sua isola ma anche di zone come il nolano e il casertano", concludendo che "nella città il folklore, quello vero, non si mostra, resta solo un fenomeno di riverbero perché viene disgregato dalle stesse strutture urbane che non gli consentono articolazioni e finiscono per disgregarlo".
    Mutuare le forme culturali delle comunità rurali in ambiente urbano è, quindi, un modo di affrontare coralmente disagi e miserie, "diversamente dalle crisi borghesi che sono individuali e si risolvono dallo psicanalista non esistendo modelli collettivi nei quali identificarsi".
    Ne è un esempio la festa della Madonna dell'Arco: una corsa forsennata dei devoti che da secoli si svolge ogni lunedì in Albis fino alla sede del santuario che dista una decina di chilometri da Napoli, si tratta di "riti, canti, celebrazioni o rappresentazioni con l'impronta, il marchio della cultura popolare che li ha generati. Questo folk, alla fine, che nasce e trova nutrimento da un memen­to di coralità, neutralizzando attraverso il rito collettivo la con­dizione di emarginato del singolo individuo, diventa automaticamen­te protesta e contestazione. Spec­chio di una realtà, dunque, che il facile bozzettismo della felicità pa­storale ad uso turistico, ammannita con frequenza dalla musica di consumo, cercava di camuffare, quasi che non fosse mai esistita una questione meridionale.
    Il folk campano autentico, quin­di, sembra risiedere prevalente­mente in provincia, nei centri di campagna, nelle isole, nei villaggi marini. In realtà, a guardar bene, ha ragione chi sostiene che que­sto folk nessuno l'ha fatto rina­scere oggi perché è sempre esi­stito. Tutt'al più oggi si è preso nota della sua continuità e vali­dità, persino a dispetto della col­pevole ignoranza della sua esistenza. Semmai oggi appare difficile sottrarlo alla voracità di coloro che vorrebbero strumentalizzarlo per fini non sempre esclusivamen­te commerciali.
    Una riprova palmare, pratica persino, di questa immutata so­pravvivenza di un folk autentico nelle zone rurali dell'hinterland, la possiamo avere in Via Salaiola Orto del Conto, a Napoli, nei pres­si di Piazza Mercato dove fu giu­stiziato Corradino di Svevia, dove c'è la Chiesa del Carmine che vide l'ultima prodezza di Masaniello. Qui abita e lavora Salvatore Buc­cino, superstite Orfeo dei balli po­polari. E' l'uomo - l'unico in tut­ta la Campania - che ancora co­struisce tamburelli, putipù e scetavajasse, strumenti che hanno sempre accompagnato i canti po­polari e che oggi forse hanno ac­quistato una dimensione turistica. Ma sono proprio questi strumenti che simboleggiano l'enorme nume­ro di feste popolari (300 nella in­tera regione e circa mille in tutto il Sud) dalle quali si può attin­gere presumibilmente il folk più autentico o quanto meno, il più istintivo. Salvatore Buccino le co­nosce tutte e in ogni festa orga­nizza il suo posto di vendita. Oltre agli occasionali acquirenti, questo ultimo Orfeo di Napoli fornisce i tamburelli sia ai gruppi del revi­val (la stessa Nuova Compagnia di Canto Popolare) sia a quelli autentici che esprimono il folk nei loro momenti rituali. Tra i suoi clienti c'è anche un'anziana ma formidabile suonatrice di tamburello diventata famosa, e non solo a Somma Vesuviana, il paese di nascita, per le sue tammurriate.
    Il folk dei momenti rituali, testimonia Roberto De Simone, è quello dei gruppi di Giugliano, di San Sebastiano al Vesuvio, di Montemarano, di Bellizzi.. C'è poi il gruppo che fa capo a Menecone un personaggio di Torre del Greco, noto per i suoi canti nel santuario di Montevergine, la Zabatta di Ottaviano ed infine, il più significativo, quello della Paranza di Ognundo. La Paranza - una paro­la che sta per equipaggio, ciurma, associazione di persone - è formata da venti uomini che in mag­gioranza hanno superato la cinquantina. Vivono a Somma Vesuviana e i loro 'momenti rituali' sono legati alla festa della Ma­donna diCastello il cui santuario si trova alle pen­dici del Monte Somma. Nel loro repertorio figurano canti di carrettieri, di po­tatori, canti a figliolafronn' 'e limone e tammurriate, dentro i quali si mescola l'elemento reli­gioso (il canto votivo in onore della Madonna) e quello ricco di allusioni ses­suali come la famosa Ta­rantella d’o cucuzziello. Il capoparanza, Gennaro Al­bano - che tutti chiama­no semplicemente Zi' Gen­naro - ci ha raccontato dello strepitoso successo conseguito dal gruppo negli Stati Uniti questa estate: la Paranza di Ognundo si e esibita su invito della Smithsonian per il Festi­val Internazionale del Folk USA. Ed è lui stesso che ci ha ricordato il nome di un pioniere della ricerca, l'americano Alan Lomax, che fra il 1953 e il 1954 ese­guì le prime registrazioni dei canti popolari campani. Dagli anni di Alan Lo­max a quelli di De Simone (il lancio della Nuova Compagnia di Canto Popolare risale al 1967). Lo studioso napoletano si ritiene oggi pago dell'interesse che ha saputo suscitare intorno al fenomeno. Adesso la sua attenzione è rivolta altro­ve, al folk gestuale: 'Lo sbocco del futuro è nel ge­sto che è quindi teatro'. L'importante è che si sia risvegliato in Campania un amore per la ricerca del folk autentico: studiosi co­me Diego Carpitella e An­nabella Rossi, le cui inda­gini si sono rivolte ad approfondire anche altri lati del momento folk, ne sono gli attuali protagonisti.

    Annabella Rossi, diret­trice del Centro Ricerche del Museo nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, autrice fra l'altro di un saggio sulle 'feste dei poveri' (ed. Laterza), ha voluto precisare che queste indagini per dare risultati positivi devono es­sere il frutto della colla­borazione di esperti di va­rie discipline, il musicolo­go, il sociologo, l'antropo­logo e l'economista. 'E' necessario insomma affron­tare il problema in manie­ra interdisciplinare'. Con­seguenza immediata di tali intendimenti è un nuovo saggio che vedrà la luce a dicembre, dal titoloRituali di Carnevale in Campa­nia. dovuto alla stessa An­nabella Rossi, Roberto De Simone, Paolo ApolitoEn­zo Bassano (per le regi­strazioni), Marialba Russo(per le fotografie) con il contributo degli studenti del corso di Antropologia Culturale dell'Università di Salerno.
    Se alla fine volessimo permetterci un'impressione personale, dovremmo dire di aver capito che il folk, anche se non percepito sempre nei suoi momenti di ritualità più genuina, resta pur sempre valido se si trasforma in un veicolo: a queste condizioni, anche senza mediazioni subalter­ne esaurisce la sua funzio­ne. Così per esempio ci possiamo spiegare che in una celebre festa campana come quella dei Gigli di Nola (enormi torri di cartapesta e di legno portate a spalla da una carovana che procede ballando fre­neticamente lungo tutta la città) che dovrebbe rappresentare il ritorno di San Paolino, reduce dalle pri­gioni africane, il soggetto della manifestazione sia stato recentemente Salva­tore Allende, il presidente cileno assassinato".

    Data: settembre 1975

  • Luogo Napoli
  • Provincia Napoli
  • Regione Campania
  • Autore Salvatore Bianco

  • Genere Testo
  • Descrizione

    Un articolo di Luigi Greci anticipa l'ingresso degli studi radiotelevisivi napoletani nel ciclo della produzione Rai nazionale con la rappresentazione della Cantata dei pastori, ovvero La nascita del Verbo Umanato, una favola tra il sacro e il profano, ispirata dai canti dei pastori natalizi napoletani e composta nel diciassettesimo secolo da Andrea Perrucci, sotto lo pseudonimo di Casimiro Ruggero Ugone. "Questa Cantata", scrive Greci, "si rappresenta ancora ai giorni nostri nei popolari teatri napoletani, sia ad opera di veri attori, sia, più frequentemente, ad opera di umili filodrammatici, che la rievocano puntualmente ogni anno la notte di Natale. Rifacimenti, adattamenti istrionici hanno trasformato e storpiato gli aulici versi del Perrucci, cosicché nell’antico bisogno di celebrare un rito sacro si è andata man mano innestando ogni sorta di buffoneria per assecondare l’estro e i lazzi dei due protagonisti, gli zanni in dialetto napoletano, Razzullo e Sarchiapone, i quali fanno da ingenuo e allegro contrappunto alla vicenda del viaggio di Giuseppe e della Vergine Maria verso la biblica grotta di Betlemme. Lo zanno Razzullo era stato creato dallo stesso Perrucci, poi, ai primi del ‘700, il poeta Coccavo gli affiancò il personaggio di Sarchiapone e da allora lo slancio buffonesco si accompagnò con toni sempre più preponderanti al primitivo lirismo sacro. Questo antico e pur sempre fresco testo pastorale è riproposto all’attenzione del più vasto pubblico televisivo in una libera riduzione e in un apposito adattamento di Vittorio Viviani, che ne ha curato anche la regia teatrale, mentre la regia televisiva è stata affidata a Lelio Golletti. Le scene sono di Franco Mancini, i costumi di Ugo Castellana, le musiche di Raffaele Viviani, eseguite dall’Orchestra 'A. Scarlatti' di Napoli della Radiotelevisione. Elena Cotta e Rino Genovese formeranno la Sacra coppia di Maria e Giuseppe, mentre Franco Sportelli e Ugo d’Alessio daranno vita ai due zanni napoletani Razzullo e Sarchiapone, affiancati da uno stuolo di altri valorosi attori".

    Data: dicembre 1985

  • Luogo Napoli
  • Provincia Napoli
  • Regione Campania
  • Autore Luigi Greci

  • Genere Testo
  • Descrizione

    Un articolo di Antonio Lubrano presenta la Cantata dei pastori nella riduzione teatrale e poi televisiva curata da Roberto De Simone "che si potrebbe definire il più moderno studioso di tutte le forme di spettacolo popolare napoletano, ricercatore accanito delle radici culturali del 'pianeta Napoli'. E’ lui che ha elaborato, per esempio, il repertorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare, lui l’autore delle musiche del Masaniello di Elvio Porta e Armando Pugliese; ancora lui l’autore e il regista di La gatta Cenerentola, il più grosso successo teatrale della scorsa stagione. Nel 1974 fu sempre Roberto De Simone a riproporre al teatro San Ferdinando di Napoli la Cantata dei pastori, spettacolo del 1699, scritto dal poeta palermitano Andrea Perrucci, che si ispira piuttosto palesemente al presepio napoletano. E proprio in quella occasione promosse una mostra dei pastori degli artigiani di S. Gregorio, nella quale rispuntarono i personaggi proibiti del presepio. Proibiti. Ma da chi? 'Da monaci e suore oscurantisti che negli scorsi decenni hanno in influenzato gli artigiani', mi risponde un addetto ai lavori. Adesso il diavolo mette legittimamente la coda anche nel presepio televisivo. La Cantata dei pastori, infatti, arriva a colori sul piccolo schermo in una particolare revisione e riscrittura di Roberto De Simone ma col suo carico originale di demoni e di santi. La trama è semplice e ingenua: Satana, Belfagor e altri autorevoli esponenti dell'inferno apprendono con rabbia che Dio vuole redimere l'umanità dal peccato originale mandando sulla terra suo figlio, e allora si coalizzano per impedire o almeno contrastare la nascita di Gesù. In che modo? Ostacolando il viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme. Per fortuna c'è l'Arcangelo Gabriele che veglia sul falegname e la sua sposa. In questo duello tra il bene e il male capitano in Galilea due napoletani, Razzullo, scrivano e agente delle tasse, e Sarchiapone, un gobbo che pratica l'arte di arrangiarsi. Una "pastorale", insomma. che confonde volentieri il sacro e il profano. Naturalmente in tre secoli la Cantata del Perrucci ha subito non poche variazioni ma soprattutto è diventata un'occasione di coinvolgimento del pubblico: lo spettacolo si protrae per ore (persino sei ore, ha annotato nelle sue cronache il filosofo Benedetto Croce) e gli spettatori dialogano con gli attori, li sbeffeggiano o si inteneriscono ad alta voce alle loro disavventure. C'è, in questo, l'istinto tutto napoletano di considerare il sacro come reale e la Vergine, S. Giuseppe, Gesù Bambino, l'Arcangelo e Satana come persone di famiglia. Quando il santo falegname, per esempio, chiede a Maria 'Cosa posso fare?', uno del pubblico risponde: 'Chiamma na levatrice!' (un'ostetrica). L'edizione televisiva inventata da De Simone è, sì, la Cantata ma allo stesso tempo la sua storia e la storia del pubblico che per secoli ha dato vita alla Cantatanelle sere natalizie. Perciò lo spettacolo ricorre allo stile della sacra rappresentazione seicentesca (ma in una libera riproposta), al melodramma napoletano del Settecento, e si sviluppa come un collage: riprese cinematografiche esterne, riprese in studio e riprese con telecamere in un teatro dove prende rilievo il rapporto attore-pubblico. Gli spettatori che rimbeccavano Maria, Giuseppe o i diavoli, dice De Simone, non ci sono più, si deve parlare di 'pubblico morto' e perciò in televisione si sentiranno solo le voci di questo pubblico che pure è un protagonista della rappresentazione".

    Il Teatrino di corte della Reggia di Caserta (ricostruito in studio per la Cantata): tra la Madonna (Fausta Vetere) e S. Giuseppe (Roberto De Simone) è apparso Belfagor (Mario Merola), ma dal cielo, con funi e carrucole, scende Gabriele (Isa Danieli), l'arcangelo protettore. In massima parte gli interpreti sono della compagnia del Cerchio, gli stessi di La Gatta Cenerentola. Vi si aggiungono in ruoli particolari Antonio Pierfederici e Orazio Orlando. A destra, il Bambino Gesù della Cantata televisiva è in realtà una bambina, Caterina, figlia di Odette Nicoletti e di Mauro Carosi, rispettivamente costumista e scenografo dello spettacolo. La sera del 24 dicembre, quando compare sul video, Caterina avrà sei mesi e ventidue giorni. Per questa reinvenzione dell'opera scritta tre secoli fa, la Nicoletti ha disegnato oltre sessanta costumi. In una scena della Cantata, Carosi presta la sua voce a S. Giuseppe [dalla didascalia a p. 25].

    Data: dicembre 1985

  • Luogo Napoli
  • Provincia Napoli
  • Regione Campania
  • Autore Antonio Lubrano