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Archivio Sonoro

Mimmo Ferraro

Mimmo Ferraro

Venerdì, 22 Giugno 2018 17:48

000 Arci, Cilento 1977-78

Registrazioni sul campo raccolte dall'Arci Campania (non sappiamo se da un solo ricercatore o in équipe) tra il 1977 e il 1978 nel Cilento (non sono pervenute indicazioni circa le località specifiche d'indagine né sull'identità degli esecutori): tarantelle, sonate e novene eseguite con zampogna a chiave, ciaramella e piffero doppio (o ciaramella doppia), tarantelle suonate dal solo organetto e canti a voce maschile (spesso a due voci alterne). Si segnalano inoltre la Novena(traccia 03) cantata ed eseguita sui motivi tradizionali della pastorale natalizia e il valzer de Il Carnevale di Venezia (traccia 05), brano diffuso sia in ambito colto (il tema secondo alcuni risalirebbe al '700, si ricordano anche le ottocentesche variazioni per violino op. 10 di Niccolò Paganini) che nel repertorio musicale tradizionale del mondo contadino. 
(Campania 18, 26BD220)

Indagine realizzata da Amina Cavallaro e Salvatore Cianniello il 3 maggio 1984 a Somma Vesuviana (Na) in occasione della Festa del tre della croce in onore della Madonna di Castello (per le notizie storiche legate al culto si rimanda alla raccolta R. De Simone, A. Rossi, Somma Vesuviana 1976). La paranza documentata (alla quale si fa riferimento esplicito in due brani) è quella d' Ognundo (oppure d' 'o Gnundo), che prende il nome da una località di Somma Vesuviana denominata appunto Ognundo (letteralmente "giunto", si tratta di una porzione di territorio al confine tra Somma e Ottaviano) dove la paranza si posiziona abitualmente, è organizzata storicamente dalla famiglia Albano, a partire dal compianto zì Gennaro, tradizione proseguita poi da figli e nipoti, fra tutti Sabatino Albano, ultimo e attuale capo-paranza (per maggiori notizie sulla paranza d' 'o Gnundo si rimanda a Fabio Birotti, Fuochi del Vesuvio. Riti e pratiche devozionali per la Madonna di Castello, Gramma edizioni, 2011).
I  documenti comprendono un canto a figliola con voce maschile (brano 01), un ballo sul tamburo con tammorra e aerofono ad ancia libera (brano 02), un canto sul tamburo con voce maschile e tammorra (brano 03) ed una canzonetta composta sullo stile della canzone napoletana (con struttura strofa/ritornello) dedicata alla paranza d’ 'o Gnundo ed eseguita da voce maschile, tammorra, aerofono ad ancia libera, putipù e doppio flauto (brano 04). Nelle esecuzioni documentate vengono adoperati, soprattutto per la voce dei cantori, il microfono e un sistema di amplificazione.
(Campania 25, 18BD471)

Venerdì, 22 Giugno 2018 17:25

00 Fondo Roberto Leydi - Campania

La sezione campana del Fondo Leydi, depositato nel 2002 presso il Centro di Dialettologia e di Etnografia di Bellinzona, di cui si riporta la classificazione di ogni singola raccolta. Comprende registrazioni sul campo effettuate da RobertoLeydi e da molti altri studiosi, su tutto il territorio regionale nell’arco di quasi quarant’anni.
Tra i fondatori della moderna etnomusicologia, Roberto Leydi è stato uno straordinario  intellettuale che, mosso da una molteplicità di interessi, ha svolto un ruolo rilevante in molte delle più significative iniziative della cultura italiana del secondo Novecento. Dal 1947 critico musicale per l'Avanti, dove si occupa di jazz, blues e musica popolare americana, collabora con Luciano Berio, Umberto Eco e Bruno Maderna alla fondazione dello "Studio di Fonologia" della Rai di Milano. Nel 1954 realizza con Berio e Maderna Ritratto di città, il primo lavoro italiano di musica concreta ed elettronica, e, nello stesso anno, firma con Tullio Kezich Ascolta Mister Bilbo! Canzoni di protesta del popolo americano, all’origine del suo interesse per la musica popolare italiana, indagata per tutta la vita coniugando la ricerca sul campo con l’uso delle fonti storiche ed etnografiche.
Cofondatore nel 1962 dell’Istituto De Martino e del Nuovo Canzoniere Italiano, alle cui vicende partecipò con un ruolo fondamentale fino al 1967, ha promosso una delle più vaste ed organiche ricognizioni sui repertori sociali e politici italiani nonché sull’espressività popolare dell’Italia settentrionale, animando anche iniziative collettive di largo respiro come la fondazione, nel 1972, dell’Ufficio Cultura Mondo Popolare della Regione Lombardia, ora AESS-Archivio di Etnografia e Storia Sociale, all’interno del quale si realizzò la monumentale opera del Mondo popolare in Lombardia, articolatasi in 15 volumi e in numerosi dischi della collana Albatros che, da lui diretta e fondata, pubblicò oltre 200 "documenti originali del folklore europeo".
Attento come pochi alle dinamiche che potevano rendere fecondo il rapporto tra studio e valorizzazione, Leydi promosse attività ed iniziative che potevano garantire visibilità a una cultura "altra", diversa da quella ufficiale, senza alterarne però l’identità che si dava soprattutto nella peculiarità di registri espressivi irriducibili a quelli di altri generi musicali. In quel crinale molto ripido in cui si poteva conciliare il rigore filologico con le esigenze di promozione, si situano così memorabili esperienze di studio e spettacolo come Pietà l’è morta (con Giovanni Pirelli e Filippo Crivelli), Milanin Milanon (Milano, 1962, con Filippo Crivelli), Bella ciao (Spoleto, 1964, ancora con Crivelli e Franco Fortini) e Sentite buona gente (Milano, 1967, in collaborazione con Diego Carpitella, regia di  Alberto Negrin e le foto di Luigi Ciminaghi) che segnava un momento discriminante non solo in relazione alla riproposta in chiave spettacolare dei suoni tradizionali ma anche per il loro studio più rigorosamente organizzato attorno a una disciplina scientifica come l’etnomusicologia.
Nel 1972 l’approdo all’università di Bologna con una delle prime cattedre italiane di etnomusicologia che, per uno studioso di formazione tutt’altro che accademica, significava soprattutto il riconoscimento dell’esistenza di un’altra musica alla cui valorizzazione e studio aveva dedicato gran parte della sua vita.
Nel 2002 la decisione, che suscitò non pochi stupori sulla stampa nazionale, di affidare il suo sterminato patrimonio etnomusicale al Centro di Dialettologia e di Etnografia di Bellinzona che, con la collaborazione della Fonoteca Nazionale Svizzera e il sostegno di Memoriav, ne ha curato con rigore i riversamenti conservativi e la sua inventariazione. Grazie anche alla sensibilità del direttore del Centro, Franco Lurà, e di tutti i componenti del Comitato scientifico, questi materiali sono ora fruibili, su base regionale, nelle sedi della Rete degli Archivi, al fine di faciltarne la consultazione a studiosi ed appassionati: sono esclusi dal fondo quelle raccolte per le quali non si è avuta una formale autorizzazione dai rispettivi ricercatori. 
Nell’impossibilità di ripercorrere tutte le fasi ed opere della vita di Leydi, ci piace ricordare, con Umberto Eco, la "leggerezza, gaiezza, sicurezza di giudizio critico, senso del teatro e ricerca eccezionale di un grande etnomusicologo".

Venerdì, 22 Giugno 2018 16:32

000 Possessione e nascita di un culto

"Il primo documentario (Nascita di un culto) mi è stato suggerito in parte da quanto avevo visto a Bisaccia, in parte da Annabella Rossi, ricercatrice instancabile. Giuseppina Gonnella era un’analfabeta di Serra d’Arce, una frazione di Campagna, in provincia di Salerno, che per vivere vendeva pomodori. Era molto affezionata al nipote Alberto, un seminarista morto a ventuno anni in un incidente. Per il dolore Giuseppina aveva perso la parola, recuperandola pochi giorni dopo assieme alla convinzione di essere posseduta dallo spirito del nipote che le aveva trasmesso capacità taumaturgiche. Ogni mattina lo spirito del nipote si impossessava della donna, alla stessa ora in cui era morto. Giuseppina si sentiva allora invasa da una forza straordinaria e si trasformava in una predicatrice carismatica che cominciò a richiamare moltissime persone, non solo della zona ma anche da posti più lontani. I fedeli arrivavano a gruppi, stabilendo con il guaritore Giuseppina-Alberto un rapporto molto intenso e coinvolgente. In Nascita di un culto abbiamo girato alcune scene nella casa dove aveva abitato Alberto, un luogo impregnato della sua presenza, ricolmo di ricordi della sua esistenza ai quali si erano aggiunti tantissimi ex-voto. La Chiesa non gradiva molto il propagarsi di questo culto, anche perché la gente cominciava a disertare le chiese per recarsi da Giuseppina. A questi incontri, del resto, si levavano invocazioni alla Madonna e ai santi, in una strana combinazione di paganesimo e cattolicesimo, favorita anche dalle tradizioni religiose della zona, in particolare la venerazione per Sant’Antonino, il nemico di Satana, solitamente raffigurato nell’atto di schiacciare la testa al serpente. Per evidenziare l’incontro tra culture diverse, in Nascita di un culto le vicende di Giuseppina si alternano alla processione di sant’Antonino, mentre ne La possessione compaiono immagini del santo in lotta contro i demoni. […] Alberto era considerato un santo, un mediatore di grazie che poteva intercedere presso Dio per concedere ai fedeli guarigioni e grazie. Un santo che oltre tutto, attraverso la zia, si manifestava quotidianamente. Non meraviglia che in poco tempo il fenomeno si allargasse, richiamando un numero sempre più grande di devoti, al punto che le cerimonie furono spostate in un grande garage, diviso a tre navate come le chiese. I parenti meno ispirati ma sicuramente più pratici, pensarono bene di accogliere i pellegrini, facendo trovare loro tutto quello che poteva servirgli, dal caffè alle sigarette fino anche ad oggettini ricordo o canzoni in onore di Alberto, incise da cantanti celebri come Aurelio Fierro. Il tutto rigorosamente gestito dalla famiglia che raccoglieva anche un gran numero di ex-voto, spesso preziosi. La seconda parte de La possessione, girata in bianco e nero "virato", riguardava per lo più il cosiddetto "segreto", la stanzetta in cui Giuseppina operava le sue guarigioni: un documento davvero importante, ripreso in sinc, con uso frequente dello zoom per evidenziare meglio la trance di Giuseppina. I fratelli mi erano ostili e avrebbero fatto di tutto per impedirmi di riprendere la sorella. Per mia fortuna Giuseppina era come un’attrice, completamente ammaliata dalla macchina da presa, e mi ha sempre trattato con affetto e simpatia. Nel documentario, purtroppo, non sono riuscito a riportare tutto quello che ho visto. Tra l’altro mi sarebbe piaciuto inserirvi un’indemoniata che parlava con voce di baritono, era davvero impressionante sentire il diavolo esprimersi con voce maschile ma con sembianze femminili. Anche in questo caso per me era interessante soprattutto il comportamento della gente che attendeva, febbrile e smaniosa, Giuseppina che cadeva in trance non appena arrivava sul posto. Allora era tutto un alzarsi di mani e invocazioni, grida e preghiere, pianti e speranze. Giuseppina morì nel 1973, in seguito a un colpo di fucile sparatole da un devoto che si sentiva ingannato, non avendo ottenuto quello che desiderava. Appresa la notizia mi precipitai a Serra d’Arce. Arrivai in paese che era buio pesto, un anotte terribilmente tetra in cui non si sentiva neppure una voce, non si vedeva nemmeno una luce. Giuseppina però era già morta".

Venerdì, 22 Giugno 2018 16:16

000 L'Attaccatura

"Per l’Attaccatura è stata Annabella Rossi a segnalarmi il caso da cui prende spunto il documentario. […] Questo documentario è incentrato sulla singolare figura di Margherita, una maga foggiana che esercitava a Napoli in una casa addobbata in modo a dir poco inquietante. Nello studio c’era una specie di scimmia, una bambola-scimmia, che lei chiamava "l’essere" e che rappresentava il diavolo: la scimmia dapprima era vera, in carne e ossa, e fu poi sostituita con il pupazzo perché creava problemi. Nel documentario, che in gran parte è frontale, filmai l’arrivo di alcuni clienti che andavano a farsi curare malesseri non solo fisici. Un giovane uomo, ad esempio, voleva essere aiutato a liberarsi dall’amante che creava non poche pene alla moglie incinta. Oltre alle testimonianze in diretta, una parte preponderante è riservata alle formule magiche adoperate da Margherita e il documentario si conclude con la ripresa di una cerimonia al termine della quale i resti dell’operazione magica, cose di solito ripugnanti come teste di gallina o avanzi di agnello, venivano buttate nel lago Averno. […] Come tutte le maghe con le quali ho avuto rapporti, anche Margherita esercitava sia una magia liberatrice che una nefasta. Loro ci tengono a dichiarare, con un’insistenza sospetta, che agiscono sempre a fin di bene".

Venerdì, 22 Giugno 2018 15:56

000 I fujenti

"I fujenti riguarda una bellissima cerimonia che si svolge a Sant’Anastasia, a nove kilometri da Napoli, il lunedì di Pasqua presso il santuario della Madonna dell’Arco. Avevo a disposizione solo milleduecento metri di pellicola per cui, più che sulla cerimonia che pure compare in termini molto brevi ed essenziali, mi sono concentrato sui preparativi che le confraternite della Madonna tengono nei quartieri popolari di Napoli. Ho girato anche nella sede di una di queste confraternite che erano potentissime e organizzate per gerarchie rigidamente strutturate. Nel documentario c’è ben poco di costruito, è quasi tutto frontale. Le cerimonie del resto erano molto vistose, anche da un punto di vista scenografico, con costumi bellissimi. Una singolarità di questo culto è che la componente femminile è sottotono, prevale decisamente quella maschile, forse anche perché il cerimoniale richiede forza e vigore fisico: gli uomini fanno cose incredibili, portano costruzioni votive enormi, si buttano per terra, danzano davanti alle immagini sacre, si tuffano in corsa con gli stendardi".

Venerdì, 22 Giugno 2018 15:46

000 Grazia e numeri

Grazia e numeri è il primo incontro cinematografico di Luigi Di Gianni con Napoli, sua città natale, e con le anime del Purgatorio, culto tipicamente meridionale, che riguarda le anime che stanno sospese tra cielo e terra. "Le anime pezzentelle sono quelle dei poveri disgraziati i cui resti mortali sono stati abbandonati, ad esempio i morti delle epidemie che hanno funestato in varie epoche Napoli. Alcune persone si impossessano di questi resti mortali e stabiliscono con essi un rapporto di dare e avere, uno scambio di favori, un rapporto straordinario che si svolgeva nei cimiteri sotterranei dove si trovano queste ossa. […] In Grazia e numeri ho cercato di rappresentare la ricchezza di questo culto, le fantasie e le credenze dei devoti che intrattengono rapporti diretti con le ossa dei defunti […]. Le anime del Purgatorio del resto costituiscono una grande allegoria della nostra vita terrena, articolandosi in una galleria di figure che rappresentano tutta la società umana: c’è il Medico, il Fidanzato, la Sposa. Il personaggio di maggior rilievo è senz’altro il Capitano, che rimanda ad una versione popolare del mito di Don Giovanni. […] Rispetto alle mie intenzioni originarie, il documentario ha avuto tutt’altro svolgimento. Le autorità ecclesiastiche ci impedirono di continuare, perché non vedevano di buon occhio questa "superstizione", tant’è vero che dopo un po’ di tempo cominciarono a murare le ossa. […] Ho creato una vicenda che ruota attorno a un uomo che si ferma davanti a tutte le urne, segnandosi con orazioni e gesti simbolici. Ho inserito anche un altro personaggio, un esorcista e incensatore ripreso mentre prepara le sue polveri in barattoli di pomodoro per spargerle nei quartieri popolari e a protezione delle attività commerciali. Una scena davvero esaltante è quando si reca nel cosiddetto ospedale delle bambole, un luogo affascinante che esiste tuttora in via san Biagio dei Librai, dove si conservano strani reperti, un po’ lugubri e grotteschi, come bambole senza occhi o angeli menomati. […] Tra gli assistiti, cioè persone con capacità medianiche nell’indovinare i numeri giusti per il lotto, trovai un personaggio fenomenale, un nolano che purtroppo non ho potuto filmare perché sul punto di morte: aveva circa novant’anni e stava in un lettone enorme, seppellito sotto enormi fasci di calcoli cabalistici. […] Come al solito non avevo una troupe ricca. Oltre allo’operatore e all’aiuto operatore, c’era anche un fonico perché in questo caso era indispensabile registrare le varie orazioni e formule di questo culto. Il resto era tutto costruito, anche se mi sforzavo di cogliere l’autenticità delle persone usate come personaggi. […] Stavo maturando un atteggiamento diverso per cui cominciavo a lasciare più spazio alla ripresa diretta, anche se all’interno di una cornice quasi tutta ricostruita. A parte il fatto che questi formulari andavano necessariamente registrati, c’era anche l’aspetto gestuale, che aveva un preciso significato simbolico".

Venerdì, 22 Giugno 2018 15:34

00 Fondo Di Gianni-Campania

Tra il 1958 e il 1971, Luigi Di Gianni ha realizzato una serie di documentari che costituiscono un corpo unico nella storia del cinema italiano e una straordinaria ricerca antropologica, filtrata attraverso una rara sensibilità poetica. Dal lamento funebre carico di echi pagani in Basilicata alla devozione delle anime del Purgatorio a Napoli, dalle inquietudini spirituali che attraversavano il Gargano ai raduni di ossessi a Montesano del Salento, questi lavori rappresentano una delle più organiche testimonianze della cultura subalterna meridionale in una fase di tumultuoso trapasso. 
Una particolarissima attenzione è stata dedicata nella sua notevole produzione cinematografica alla Basilicata che, da Magia Lucana La Madonna del Pollino, scandisce le attività del primo e più rappresentativo dei documentaristi di ispirazione demartiniana, di origini lucane, da parte materna, e profondamente legato a questa terra "per un groviglio di motivi diversi. A parte le mie origini, c'era sicuramente un moto di istintiva solidarietà verso popolazioni ridotte a una situazione estrema di impotenza. In quella gente oltre tutto ho trovato anche una consapevolezza della propria condizione davvero rara e un senso estremo della propria dignità, sensazioni ed impressioni che si coglievano soprattutto sui loro visi, di una bellezza antica e interiore, una bellezza senza tempo, fuori dalla storia e appunto per questo capace di assumere anche un valore altamente emblematico".
Estraneo al clima del neorealismo e con ascendenze artistiche piuttosto insolite per un documentarista, come la predilezione per il cinema espressionistico tedesco e l'amore viscerale per Kafka, i suoi lavori non presentano motivi di grande interesse per quanto concerne lo specifico musicale (per le colonne sonore si è affidato per lo più a compositori contemporanei) ma offrono i contesti in cui meglio cogliere alcune espressioni musicali, essendo contestuali a importanti ricerche di Annabella Rossi che ha collaborato con lui per numerosi documentari.
Il fondo raccoglie i documentari girati in Campania, con il corredo di alcune foto di scena: nelle descrizioni si è preferito ricorrere il più possibile alla viva voce del regista, servendoci della lunga intervista che compare in apertura del volume Tra magia e realtà. Il meridione nell'opera cinematografica di Luigi Di Gianni, Squilibri editore, 2002. 

Venerdì, 22 Giugno 2018 15:05

000 Le registrazioni sul campo

Nel pubblicare i sette microsolchi de "La tradizione in Campania", De Simone dichiarava, nel luglio del 1978, di essersi attenuto a presupposti e convinzioni acquisite durante quindici anni di ricerca sull'espressività popolare in Campania che lo avevano indotto a discostarsi dal criterio, assunto come norma metodologica irrinunciabile nell'ambito della ricerca etnomusicologica, di limitarsi a registrazioni sul campo per quanto riguardava le fonti della cultura orale: norma che lui stesso aveva rispettato registrando "con rudimentali apparecchi i primi documenti popolari" basandosi "essenzialmente sull'informatore e cioè registrando musiche e canti sul ricordo e la testimonianza degli esecutori" (R. De Simone, Introduzione a Canti e tradizioni popolari in Campania, Lato-Side, 1979, alla quale si fa riferimento anche in seguito). 
L'idea di registrare in sala d'incisione, dettata dalla constatazione che "esistevano in Campania esecutori popolari la cui eccezionalità stilistica meritava di essere fissata meglio che non con il registratore portatile", era inizialmente orientata a integrare il materiale raccolto sul campo con "qualche registrazione che esaltasse in condizioni ottimali il virtuosismo musicale degli esecutori": l'esito fu esattamente l'opposto per cui i sette microsolchi, pubblicati l'anno dopo, integravano, con qualche documento sul campo, quanto si era venuto spontaneamente delineando in sala d'incisione.
Con le prime registrazioni era infatti emerso come "la forza e la verità espressiva delle esecuzioni non soffriva la minima alterazione" per una serie di motivi che riguardavano il rapporto personale stabilito con gli esecutori che si presentavano in gruppo e la prossimità con l'evento festivo e rituale di cui dovevano dare testimonianza, stabilendo così, anche in studio, un "reale momento espressivo".
Su queste premesse nacque l'idea di impostare l'opera discografica "non solo per aree geografiche, per stili musicali, quanto essenzialmente sui linguaggi", "linguaggi antichi e pur sempre nuovi nel momento che c’è una voce, un esecutore in grado di articolarli ed una comunità in grado di recepirli". Le perplessità riguardo al restituire in una sala di incisione "il linguaggio più puro dei canti e delle musiche tradizionali" venivano "totalmente" smentite dai risultati, vale a dire "il grado di tensione e verità raggiunto nelle registrazioni in sala discografica" attestato non solo "dalla compattezza, dall'organicità e dall'espressività delle stesse esecuzioni", ma anche "dalla straordinaria serie di fotografie scattate da Mimmo Jodice in sala durante le registrazioni": fotografie che, ritraendo la singolarità espressiva degli esecutori, la tensione drammatica dei loro volti, attestavano magnificamente come anche  in sala di incisione tutto si fosse svolto "ai limiti della possessione magica del rituale". 
Nel rimettere mano, trent'anni dopo, a questa sua memorabile impresa, in vista del volume con sette cd allegati, Son sei sorelle che ha costituito l'avvio delle attività dell'Archivio Sonoro della Campania, De Simone, aggregando ai materiali in studio quelli raccolti sul campo, ha offerto una mirabile riprova della bontà di quella sua intuizione data l'impossibilità di distinguere - al di là degli aspetti più strettamente tecnici - le registrazioni in studio dai brani raccolti sul campo, individuati in un lungo e meticoloso lavoro di selezione: le une e gli altri, secondo l'inarrivabile sensibilità musicale dell'autore de La gatta cenerentola, sono stati così ordinati come una straordinaria sinfonia che restituisce all'ascolto il canto corale di un popolo, l'anima e il cuore palpitante di una tradizione che, oggi come allora, si può comprendere appieno soltanto in relazione "al mito e al culto delle sette Madonne: sette sorelle, delle quali sei belle e una brutta e nera che invece risulta essere la più bella di tutte, la Madonna di Montevergine detta 'Schiavona', ossia nera". 
Dai possenti canti sul tamburo, con le innumerevoli varianti delle tradizioni locali, alle tarantelle e canti "a figliola", dagli strambotti e ninne nanne fino a un'insospettata tradizione di canto sociale e politico, si dispiega così la possente forza stilistica e comunicativa dell'espressività popolare, colta al massimo delle sue potenzialità, attraverso i suoi interpreti più rappresentativi, protagonisti tanto delle registrazioni in studio quanto di quelle sul campo: Giovanni Coffarelli, grande cantatore dotato di una potenza vocale e di un'energia sonora non più eguagliate, Giulia Ciletti, rarissima superstite delle lamentatrici funebri presenti in Irpinia, Antonio Torre, il più valente suonatore di tamburo della Campania, il suo omologo femminile, Rosa Nocerino, "vera regina del tamburo" e tutti gli altri depositari di una cultura secolare, dotati di una sacerdotale sacralità che determinava lo zenit del ritmo e delle modalità stilistiche, in virtù delle quali prendeva vita quel tessuto liturgico di dialoghi e improvvisazioni in cui si riconosceva tutta una comunità. 

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