Per molti anni negli studi italiani di etnomusicologia si è ritenuto che il Mezzogiorno fosse rimasto impermeabile alla diffusione di canti sociali e politici di estrazione colta (nei testi e nelle melodie). Si è ritenuto, a torto, che nelle regioni settentrionali fosse avvenuto un intreccio e forme di contaminazione tra la cultura ufficiale (sia pure di opposizione) e le varie forme di culture popolari, mentre al Sud le culture popolari fossero rimaste del tutto isolate nelle forme arcaiche e nella sostanziale autonomia linguistica e musicale.
Molta ricerca sul campo ha espresso raccolte importantissime per l’Italia del nord, mentre al Sud le ricerche effettuate fino agli anni ’70 hanno quasi sempre evidenziato il canto popolare "autoctono", "etnico", "originale". Si finiva quindi spesso per non accorgersi o non dare valore ai canti in lingua italiana (sia pure adattata e reinterpretata) e a quelli che, su melodie già note a livello nazionale (di estrazione napoletana o di canti politici della parte avversa), costruivano testi più vicini alla propria condizione culturale e sociale.
Già nelle campagne del Tavoliere (e non solo), nei momenti dello sfruttamento più aspro, agli albori del secolo scorso, i braccianti cantavano, al calar del sole, strofette isolate, per lo più in sequenze libere e non organizzate in senso narrativo, che possiamo definire canti sociali, sia pure nella loro funzione di canti eseguiti sul lavoro. Alcune di queste esprimevano una contrapposizione radicale al padrone, in cui l’ironia dei versi, e talvolta la violenza verbale espressa, era causa e contemporaneamente effetto di una presa di coscienza, allora appena avviata. Al termine della giornata, i braccianti di Cerignola cantavano: U sol'o fatt' russ'/ u patroun' appenn'u muss' (il sole diventa rosso e il padrone mette il broncio). In alcuni casi la violenza verbale si faceva invettiva e promessa di vendetta e rivolta per quanto si era subito in precedenza. In questo contesto anche i versi di Padrone mio, ripresi dalla tradizione orale e ormai famosissimi nella rielaborazione di Matteo Salvatore, apparentemente segnata da un senso di sottomissione e arrendevolezza, assumono una valenza simbolico-allegorica di tutt’altro segno in alcune varianti delle braccianti di Orsara di Puglia.
Ma è nei canti di rivolta e in quelli nati all’interno o a posteriori di sommosse popolari, che il canto orale assume il ruolo di documento storico, vera e propria "fotografia" o "radiocronaca" di quanto avvenuto e di come è stato vissuto dai protagonisti. In questi canti gli anonimi autori perdono la leggerezza dell’ironia e dell’allegoria e passano a narrare, con nomi e cognomi, il capovolgimento avvenuto: le vittime diventano vendicatori, i vecchi oppressori fuggono dinanzi alla massa inferocita. Uno degli esempi più interessanti è la ballata, raccolta a Minervino Murge, che descrive la rivolta popolare per il pane del 1898, contro i fornai e i loro trucchi per rendere sempre più costoso questo alimento fondamentale per la sopravvivenza.
Registrazioni di Giovanni Rinaldi, Paola Sobrero e Alberto Vasciaveo, raccolte nel territorio della Puglia Settentrionale (Capitanata e Minervino Murge in particolare) dal 1976 al 1979 e selezionate dai nastri magnetici originali da Giovanni Rinaldi.
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